Nel campo di Fellah inferno a cinque stelle

 

DA AVVENIRE


​Khaleb è legato come un cane. Una corda lunga due metri gli serra la caviglia, a malapena può uscire dal prefabbricato e raggiungere la ringhiera, da dove osserva digrignando i denti il profilo color ocra di Tripoli all’orizzonte e più lontano – ma è un miraggio impossibile per lui – il mare piatto e azzurro. «È disturbato – dice Ahmed, che lo sorveglia da vicino – non può stare con gli altri; a volte li aggredisce, altre volte si fa del male da solo».
Benvenuti a Fellah, 20 chilometri dal centro di Tripoli, in quello che Walid Jalloud chiama appropriatamente “l’unico campo profughi a cinque stelle”. «Gli altri campi – dice – come Gheryan, Tarhouna o Al Wahat lei nemmeno se li immagina. Qui almeno hanno un tetto». Sono almeno duemila i rifugiati di Fellah, e hanno due cose in comune tra loro: vengono tutti da Tawergha e sono tutti di colore. «Nel passato Tawergha – dice Walid – era una cittadina di schiavi, per questo sono quasi tutti neri.
Quando la Libia si è sollevata gli abitanti di Tawergha hanno preso le armi e invece di appoggiare la rivoluzione hanno marciato su Misurata. Gheddafi gli aveva promesso il diritto di saccheggio e la proprietà della terra se avessero sconfitto la resistenza della città. Invece Misurata non ha ceduto, ma loro hanno commesso molte atrocità. E allora sono scappati, in trentamila. Ce ne sono almeno ventimila tra Fellah, Jansour, Trigmatar, Masna Jibes. Gli altri diecimila sono svaniti».
Walid la sa lunga. Lui è nipote di quel Jalloud che per decenni è stato il numero due di Gheddafi e che alla vigilia della capitolazione di Tripoli è fuggito a Roma, con le sue colpe (fu il principale finanziatore del terrorismo sponsorizzato dalla Jamahiryia), i suoi ricordi e i suoi tanti segreti.
Ma i profughi di Tawergha sono una goccia nel mare dell’indescrivibile mosaico libico. Tra profughi, sfollati, rifugiati e clandestini si arriva tranquillamente a centomila unità. Settantacinquemila li ha censiti l’Unhcr, ma ci sono i prigionieri politici (quelli direttamente compromessi con il passato regime, che i vari clan tengono chiusi in prigioni disumane in attesa che la Libia si doti di un sistema giudiziario in grado di esaminare il loro caso), i militari irriducibili (che non hanno saputo o voluto cambiare bandiera come invece hanno fatto in molti, oggi ai posti di comando e ora sono chiusi in caserme divenute penitenziari sorvegliati dalle milizie dei tuwar, i giovani guerrieri protagonisti della rivoluzione) e poi, piaga irrisolta della Libia, il popolo invisibile dei subsahariani, che nel Paese di Gheddafi trovavano fino a un anno fa la porta d’ingresso verso il mare, il barcone, il miraggio di Malta, di Pantelleria, di Lampedusa e che oggi in qualche modo hanno ritrovato la strada da Timbuctu, da Ndjamena, da Dakar, dalla Nigeria. Una strada che troppo spesso, come sappiamo, si conclude tragicamente sul fondo del mare.
Innegabilmente il flusso è ricominciato. «I prezzi ci aiutano a capire meglio di ogni statistica – dice Salem Nashnush, operatore turistico forzatamente a corto di clienti –: quando era Gheddafi a imbarcarli a forza per spingerli in Italia bastavano 200-300 dollari per un posto in barca. Ora ce ne vogliono di nuovo 2000. Segno che il mercato tira e che i trafficanti di clandestini hanno rialzato la cresta». I punti d’imbarco sono sempre gli stessi: si può salpare da Tripoli o si può attendere un barcone e un mare favorevole a Zuwarah, cento chilometri a ovest della capitale e una sessantina dal confine tunisino. Ed è ancora una volta la Tunisia a dover spalancare le porte a un altro flusso di profughi, questa volta libici e meglio attrezzati dei dannati subsahariani. Dai valici di Dehiba e di Ras Jedir almeno cinquemila persone hanno passato la frontiera negli ultimi due giorni, diretti a Djerba e a Tunisi.
Ma in questo puzzle impazzito che è la Libia c’è posto anche per una specie particolare di profughi in armi, gli irriducibili Tuareg gheddafiani, che ora si sono spostati in Mauritania e nel Mali e sognano – esattamente come i curdi a cavallo fra Turchia, Iraq e Iran – una nazione tuareg che accorpi porzioni di Algeria, Niger, Mali e Ciad. Il tutto sotto l’insegna di Al Qaeda, che nella regione fa proselitismo a velocità inimmaginabile. Orfani del Rais, che li vellicava e li pagava bene, i Tuareg ora combattono nel deserto e la loro guerra ha di fatto bloccato una delle vie carovaniere attraverso cui passava il flusso di clandestini diretti in Europa.
Chiedo a Mohammed, diciannove anni, orfano, profugo di Tawergha, che cosa sarà di lui.
«La mia città – dice – non esiste più, l’hanno distrutta e saccheggiata casa per casa. Tornare noi non possiamo di certo. Le milizie vengono qui al campo con delle liste di nomi. Cercano dei colpevoli fra noi. Certamente ce ne sono, ma sono una piccolissima minoranza. Noi non siamo prigionieri in questo campo, ma uscire sarebbe una follia: abbiamo la pelle scura, ci riconoscerebbero subito. Alcuni l’hanno fatto e non sono mai più ritornati».
La pelle scura. Gheddafi reclutava la bassa forza del suo esercito fra i neri del Ciad, del Mali, della Mauritania. E per quanto il Cnt, i miliziani, i tuwar, chiunque nella Libia della rivoluzione neghi che ci sia del razzismo nei loro confronti, la caccia al nero è cominciata subito, non appena la Tripolitania ha cominciato a cedere.
Nel pomeriggio arriva un camion di aiuti alimentari e di medicinali. I guardiani di Fellah lo smisteranno tra i profughi degli altri campi, al momento non c’è emergenza sanitaria, ma quando arriverà il caldo per la vasta popolazione dei profughi cominceranno i problemi seri. La stessa Unhcr, la Croce Rossa, la Mezzaluna Crescente ammettono che stanno ancora organizzandosi e che gestire aiuti e flussi migratori è ancora un problema lasciato per lo più alla volontà delle singole organizzazioni non governative e alla Chiesa cattolica.
Mohammed rilutta a dirlo, ma un anziano del “campo a 5 stelle” di Fellah ci racconta che ha una fidanzata, conosciuta durante la fuga da Tawergha. «Non la può incontrare – spiegano – uomini e donne stanno separati, ma vorrebbero fuggire insieme». Dove? «In Europa, con una barca – dice Mohammed –. Prima o poi troverò una barca per fuggire in Europa con lei». Legato alla sua catena, Khaleb guarda ringhioso il mare. Nemmeno i sogni di Mohammed gli sono permessi.

Giorgio Ferrari