Giancamillo Trani,

coordinatore regionale dell’Area Immigrazione

della delegazione Caritas della Campania

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come è articolata la struttura delle Caritas in Campania?

Ognuna delle 25 diocesi della Campania ha la sua Caritas con un direttore ed una articolazione per settori o per aree di intervento. Questa articolazione non è uno standard che vale per tutte le Caritas diocesane, riguarda principalmente le diocesi medio grandi, quelle a carattere metropolitano oppure provinciale, che hanno delle articolazioni su tutte le fasce del disagio sociale ed in particolar modo per: immigrati, donne in difficoltà, anziani, minori, nuove povertà; ognuno di questi settori solitamente fa capo ad un ufficio che segue monotematicamente le vicende di quella area di emarginazione e di esclusione sociale.

Napoli, dopo Milano e Roma, è la terza diocesi d’Italia, come dimensioni ed importanza è la prima nel mezzogiorno. Ci sono ovviamente diocesi più piccole che non hanno questa articolazione e magari hanno un direttore coadiuvato da qualche volontario che cercano di affrontare le problematiche presenti sul territorio.

Abbiamo poi tre coordinamenti: l’area promozione umana, l’area mondialità e l’area salvaguardia del creato; queste sono le tre macroaree all’interno delle quali si suddividono le varie aree della delegazione regionale Caritas, che è un organismo di coordinamento tra le Caritas di una regione. Per ogni regione italiana esiste una delegazione regionale Caritas che ha un delegato come figura di riferimento.

 

 

 

Quali sono le attività generali che vengono svolte a favore degli immigrati dalla Caritas diocesana di Napoli?

Abbiamo una serie di attività. In primo luogo l’attività dell’ascolto, ovvero un luogo deputato a far sì che l’immigrato venga messo a proprio agio e possa esprimere quelli che sono i suoi bisogni, da cui poi si parte per organizzare un percorso di inserimento o reinserimento sociale e lavorativo per l’immigrato stesso. Quindi di volta in volta vengono sollevate questioni che riguardano precipuamente l’occupazione, la tutela della salute, il diritto all’istruzione, l’accesso alla casa ed ai servizi cosiddetti a bassa soglia. Perché molto spesso l’immigrato, per un gap di carattere deterministico o cognitivo, non riesce da solo a districarsi all’interno dell’apparato burocratico, che il nostro paese presenta anche in maniera abbastanza complessa. Molto spesso quelle che sono delle situazioni all’interno delle quali l’immigrato si dibatte magari per giorni, noi glie le risolviamo subito, perché magari si tratta solo di portarlo nei posti giusti e soprattutto guidarlo. Questa è l’area di base, poi abbiamo un servizio legale particolarmente qualificato, un pool di avvocati che fanno capo all’associazione “Avvocati di Strada”, che è nata a Bologna e che ha avuto a Napoli la prima filiazione nazionale strutturata. Abbiamo questi giovani avvocati che coprono un po’ tutte le branche del diritto, e poi abbiamo un ex questore della polizia di stato che una volta in pensione ha deciso di seguire il prossimo, e quindi ha messo a disposizione dei migranti la sua enorme esperienza nel settore. Con il servizio di consulenza legale cerchiamo di fornire un supporto ma anche aiutare categorie particolari quali ad esempio le donne straniere che si prostituiscono, quindi attraverso dei percorsi di emersione, attraverso ad esempio l’art. 18, etc.

Abbiamo 10 mense sul territorio che sono mense Caritas nel senso che si collegano con noidella Caritas, non sono propriamente “nostre”. Si trovano quasi tutte a Napoli e nella zona industriale, qualcuna si trova fuori Napoli. Con le mense c’è ovviamente una forma di compartecipazione alle spese. Abbiamo un coordinamento delle Mense, anzi delle commissioni - perché noi le chiamiamo così -, dove ci si incontra periodicamente, si fa il punto della situazione e si individuano dei responsabili per le attività. Nel coordinamento rientra anche qualche esperienza che si trova fuori il confine metropolitano della diocesi di Napoli. Ci sono poi delle esperienze come “Fratello Freddo” che si occupano dei senza fissa dimora.

Abbiamo anche un coordinamento sanitario di ambulatori di base a cui collaborano diverse fondazioni.

Poi abbiamo l’area della “Migrantes”. La Migrantes è una fondazione della CEI che ha degli uffici diocesani su tutto il territorio nazionale che si collegano ad essa, a Napoli il direttore è Monsignor Silvestri. La Migrantes nasce a suo tempo in favore degli emigranti italiani, quindi nasce come una fondazione che si occupava dell’animazione spirituale degli emigranti che andavano all’estero, poi nel tempo, quando si è un po’ affievolito il flusso degli italiani che emigravano,ha cominciato ad occuparsi anche degli immigrati, in particolar modo nell’animazione spirituale e per il dialogo interreligioso tra le componenti presenti sul territorio. C’è quindi una collaborazione anche con la chiesa ortodossa, con le moschee, con ministri di culto di altre fedi.

La Migrantes è una organizzazione di livello nazionale ed internazionale, ed ha un respiro diocesano, quindi in ogni diocesi c’è un ufficio diocesano che il più delle volte combacia con la figura del direttore della Caritas. Storicamente almeno fino a qualche tempo fa il direttore della Caritas era anche il direttore della Migrantes. A livello nazionale le due dimensioni camminano a braccetto, se pensiamo ad esempio al “Dossier Statistico sull’Immigrazione”, viene firmato sia dalla Caritas che dalla Migrantes. Nelle diocesi più grandi, nel tempo, si è reso necessario separare le due cose, che comunque sono due dimensioni che lavorano insieme, anche se fanno capo a due direttori diversi, e c’è anche un coordinamento regionale Migrantes che ha un direttore, un po’ come la delegazione regionale Caritas che è un organismo di coordinamento regionale.

 

 

 

Quali sono invece i progetti specifici, sul versante immigrazione, che vedono impegnata la Caritas di Napoli?

Abbiamo “Casa Antares”, che nasce come un centro per donne straniere in difficoltà, non specificamente donne prostituite o trafficate, ma anche donne straniere vittime di marginalità sociale, anche con bambini al seguito. Chiaramente “Casa Antares” si limita a fare l’accoglienza ma in effetti chi poi svolge il lavoro che è di supporto alla promozione sociale della donna straniera, della donna migrante, è l’ufficio immigrazione della Caritas.

Abbiamo un progetto con la Provincia di Napoli e la compagnia dei trasporti pubblici, la CTP, che si chiama “Progetto Contact”, con dei mediatori culturali sugli autobus di linea. Il “Progetto Contact” ha avuto un grosso successo, nasce nel 2003 come idea progetto, realizzato all’inizio su commessa proprio della CTP. Adesso ci apprestiamo a svolgere questo progetto per la terza annualità.

In questo progetto abbiamo cercato di diffondere un modo nuovo di inquadrare la figura del migrante, sovvertendo un po’ quelli che sono gli stereotipi comuni, quelli più in voga, perché il fatto stesso di utilizzare un mezzo di trasporto come vettore di comunicazione interculturale è risultato alla lunga una scelta vincente in quanto sugli autobus di linea venivano a verificarsi degli piccoli attriti tra viaggiatori autoctoni e viaggiatori migranti, perché magari portavano delle borse particolarmente voluminose, etc. Abbiamo concorso quindi a diffondere in maniera diversa e nuova la figura dell’immigrato. Essendo stati molto attenti nella selezione e formazione dei mediatori culturali stranieri che poi sono andati sugli autobus di linea, abbiamo presentato in maniera nuova anche i soggetti che nell’immaginario collettivo sono solo elementi di devianza, come ad esempio una donna rom che ha lavorato con noi in una delle edizioni di questo progetto. Al progetto hanno lavorato molti mediatori africani, oltre ad un mediatore cinese, un altro palestinese; insomma abbiamo cercato di assortire anche “interculturalmente” ed “interrazzialmente” questa equipe.

I risultati sono stati positivi come evidenziato nei test di verifica somministrati al personale viaggiante. Chiaramente anche il personale della CTP è stato sensibilizzato a queste tematiche, anche perché si era partiti nel 2003 da una esigenza che ci era stata posta dalla CTP di dover necessariamente sensibilizzare il proprio personale. Le stesse rappresentanze sindacali, o del CRAL dei dipendenti CTP, hanno concorso a finanziare attraverso dei fondi di accantonamento che loro avevano questo tipo di progetto, la stessa CTP ha vinto dei premi per questa progettualità, anche a livello internazionale.

Ovviamente noi come Caritas non siamo soggetti gestori degli interventi, io questo vorrei cogliere l’occasione per ribadirlo ancora una volta, non siamo un soggetto di mercato. Noi cerchiamo di anticipare quelli che possono essere dei trend che a nostro giudizio poi si dovrebbero seguire, perché probabilmente uno dei limiti dell’azione delle pubbliche amministrazioni in questi anni è stato quello di non saper innovare adeguatamente il bouquet di offerta progettuale. Le amministrazioni locali o sono sclerotizzate nel finanziare sempre lo stesso tipo di intervento - che si badi bene non è che siano superati come concetto base, ma avrebbero dovuto necessariamente essere aggiornati e rideclinati alla luce delle mutate esigenze della stessa popolazione migrante esistente sul territorio, perché se noi promuovevamo 12 anni fa un tipo di intervento sul territorio è impensabile che oggi, dodici anni dopo, noi andiamo a ripetere pedissequamente l’iniziativa stessa.

 

 

 

Dodici anni fa si riteneva che la popolazione migrante sul territorio campano fosse un fenomeno in transito, adesso siamo di fronte ad un fenomeno che tende a diventare stanziale sul territorio, come mette bene in evidenza anche il dossier statistico sull’immigrazione della Caritas…

Per quanto riguarda lo studio sul fenomeno dell’immigrazione fino alla metà degli anni ’90 abbiamo avuto degli investimenti di ricerca sull’immigrazione, ci sono stati docenti e studiosi come Calvanese ed Enrico Pugliese che hanno scritto delle pagine importanti, descrivendo perfettamente quella che era l’immigrazione di quella epoca, una immigrazione prevalentemente africana, caratterizzata da un fenomeno di sfruttamento nelle campagne, e quant’altro…

Accentuerei però, da un lato, che questo fenomeno nel tempo non è che si sia affievolito, si è come diversificato. Abbiamo ancora oggi un modello rurale, che è il modello delle campagne, un modello circolare che segue la stagionalità del lavoro, fermo restando che abbiamo ancora delle sacche di povertà presenti sul territorio - penso ad esempio al ghetto a S.Nicola a Varco,alle tante masserie abbandonate sparpagliate un po’ ovunque -. Credo che le amministrazioni locali non abbiano saputo fino in fondo contrastare l’esclusione sociale. Ho assistito anche a dei dibattiti, a dei convegni con esponenti istituzionali, anche di primissimo livello, con ministri della repubblica, nei quali ad un certo punto c’era il bisogno di tradurre le parole del ministro di turno. A Castelvolturno ad esempio, dove per la maggior parte degli immigrati sono anglofoni, c’era una persona che si alzava ed in inglese traduceva quello che aveva detto il ministro, magari con una traduzione che non era nemmeno fedele, come spesso può succedere dai vangeli a scendere.

Il mio giudizio è che abbiamo scambiato, ad un certo punto della nostra storia delle politiche sull’immigrazione, la multirazzialità con l’intercultura. Se andiamo a piazza Garibaldi la contemporanea presenza del bianco, del giallo e del nero ci autorizza a dire che siamo senz’altro in una società multirazziale, se però andiamo a dire al rosso, al bianco e al nero, che cosa sanno vicendevolmente della cultura dell’altro vedremo che non sanno nulla, che non sappiamo nulla, e questo è grave. Ho sentito più di una persona parlare di un “orizzonte interculturale”, questo è un obiettivo di medio e lungo periodo, ma credo che se abbiamo la necessità di tradurre in inglese il discorso di un ministro, ancorché fatto in maniera semplice, siamo lontani dall’intercultura.

 

 

 

Nell’azione della Caritas, che è stata tra i primi soggetti che hanno promosso la sperimentazione, la contaminazione tra pubblico e privato sociale, il nostro intervento era volto e teso a fare sì che l’amministrazione committente maturasse una sensibilità che poi portasse a fare di quel progetto un servizio. Viceversa noi assistiamo ancora oggi, molto spesso, a questo sterile, anche amaro sotto certi aspetti, stop a dei progetti perché sono finiti i soldi, al servizio che non c’è più perché l’associazione di turno non cura più il progetto medesimo. Se invece fossero diventati un servizio istituzionalizzato si sarebbe potuto anche dare spazio e modo alle associazioni del privato sociale, ed al terzo settore, di provare ad ipotizzare altri percorsi, perché credo che anche sotto il profilo dell’offerta dei servizi siamo piuttosto sclerotizzati, perché le associazioni per poter campare devono fare sempre lo sportello informativo, oppure qualche altro servizio. Così non andiamo oltre.

 

 

 

L’attività di volontariato della Caritas a favore dei più deboli coinvolge centinaia di operatori e volontari, l’impressione è che questi servizi non vengano molto pubblicizzati dai servizi sociali delle amministrazioni pubbliche.

 

Proprio perché noi siamo una organizzazione diocesana non abbiamo l’esigenza di pubblicizzare le nostre iniziative. C’è poi un atteggiamento da parte del Terzo Settore partenopeo, ma anche delle istituzioni,a scaricare sulla Caritas i casi indigesti,oppure rivolgersi a noi per avere servizi a chiamata su casi urgenti. Dagli ospedali, che ci contattano per avere dei mediatori culturali, ai tribunali che ci chiamano per gli interpreti, ovviamente senza remunerazione. Se nel tempo avessimo voluto promuovere un discorso di mercato a noi veramente non ci sarebbero mancati i mezzi. Raramente la Caritas partecipa in prima persona a delle iniziative progettuali, a bandi. Il più delle volte siamo chiamati dagli enti e quando accettiamo è per dare un segno, un segnale su come andrebbe strutturato un servizio, secondo noi. Non partiamo mai dal presupposto che dobbiamo gestire i servizi ab eterno.

 

 

La Caritas viene spesso criticata, da una parte del Terzo Settore, per il fatto che oltre ad accedere ai fondi dell’8 per mille acceda anche alla gestione diretta dei servizi dei comuni, o degli altri enti pubblici territoriali. C’è questo timore che la Caritas possa trarne un vantaggio, corrisponde a verità oppure è un pregiudizio?

Ovviamente i fondi dell’8 per mille non sono solo per la Caritas, sono per quelle confessioni religiose che hanno sottoscritto dei concordati con lo Stato italiano. La Caritas comunque, per i fondi provenienti dalla tassazione 8 per mille risponde a coloro che hanno donato. Poi in Italia è stato introdotto anche il 5 per mille per le ONLUS. Per quanto riguarda l’8 per mille, se ragioniamo in termini metropolitani allora torno al discorso fatto in partenza, a seconda della dimensione della diocesi riceviamo chiaramente anche dei fondi 8 per mille. Più è grande la diocesi più fondi a disposizione avremo, perché il criterio di assegnazione è calcolato sulla popolazione residente. Per quanto concerne i fondi pubblici, al momento noi abbiamo “Casa Antares”, “Casa Saimir” che è un altro progetto che abbiamo a Portici - che è una casa di accoglienza per minori stranieri in difficoltà , soprattutto minori di sesso femminile-, ed abbiamo il Progetto “Contact”. Di fondi pubblici possiamo parlare solo nella misura in cui l’ente provincia di Napoli finanzia al 50% il progetto “Contact”, perché gli altri progetti sono finanziati in proprio dalla Caritas. Quindi è un po’ una leggenda metropolitana che la Caritas acceda a considerevoli risorse, e mi fa piacere poter chiare anche in questa occasione questa cosa, perché invece sappiamo tutti chi si accaparra oggi i fondi pubblici.Sono 20 anni che mi occupo di immigrazione con la Caritas ed capitato spesso che siamo stati tacciati, a torto nella gran parte, di avere una mentalità assistenzialista, di favorire quindi forme di assistenzialismo. Io vedo che viceversa oggi si sta verificando uno strano fenomeno in base al quale dei progetti e delle iniziative che venivano etichettate come assistenzialiste in senso stretto, ovvero come il posto dove ti do da mangiare, ti do da dormire e ti fai una doccia, oggi vengono definiti come “drop-in” da una certa matrice laica - non voglio dire laicista per non offendere nessuno, ma molto rispettosamente laica -, ma si tratta della stessa cosa. Allora o la chiesa è stata l’antesiniana del “drop-in” e a quel punto io ci sto, però non venite ad accusare noi di essere assistenzialisti, quando noi lo smentiamo in tutti i modi possibili ed immaginabili.

 

 

 

Basta guardare il dossier che curiamo annualmente, che non è l’unica pubblicazione, perché noi al momento stiamo curando anche le pubblicazioni di una ricerca sulle condizioni di povertà e disagio sociale nelle quali permangono gli immigrati nell’area partenopea, un’altra sui rumeni in Italia; attraverso quest’ultima ricerca che stiamo portando avanti, ad esempio, che penso sarà pubblicata prima della prossima estate, dove c’è tra l’altro anche un capitolo sui rumeni in Campania, stiamo cercando di ribaltare le etichette che sono atte appiccicate addosso a queste persone che qualcuno antropologicamente ha voluto presentare come criminali nati. Cosa che non è affatto vera, perché come per i napoletani ci sono persone perbene e persone meno perbene, né più né meno come succede qui da noi. Alla luce anche di questo insieme di pubblicazioni di studi e di attenzione sul fenomeno io non credo che si possa dire che siamo assistenzialisti. Ovviamente io non posso andarenel carisma della congregazione religiosa che fa questo da sei o sette secoli a questa parte, cioè dà il pezzo di pane, il piatto di minestra, perché anche quello serve. Perché poi se si tratta di sfamare all’improvviso qualche centinaio di immigrati clandestini che sono stati intercettati da qualche parte vengono portati nelle nostre strutture dagli organismi di pubblica sicurezza.

 

 

 

 

Per molti amministratori, anche tra i più competenti ed onesti, il problema principale delle politiche sull’immigrazione è che gli immigrati non possono votare, e di conseguenza finiscono per non essere una priorità in comuni che affrontano già altre emergenze sociali…

 

 

Procederei per gradi, in primo luogo è vero, a livello locale così come a livello nazionale, le politiche sull’immigrazione sono politiche residuali. Quello che avanza viene dato agli immigrati. E’ un luogo comune che andrebbe sovvertito anche perché, se fossi amministratore, dovrei curarmi della questione migranti non nell’ottica di una sterile contrapposizione tra autoctoni e immigrati, che è quello che invece si sta realizzando nei fatti. I migranti e gli italiani dovrebbero lottare insieme per difendere quel poco di diritti che restano agli uni ed agli altri. Anche perché la condizione di esclusione sociale dei migranti è al quadrato o al cubo rispetto a quella degli italiani. Se vogliamo soltanto pensare al fatto che spesso non conoscono la lingua, non conoscono fino in fondo i propri diritti, non hanno il sostegno delle reti parentali allargate, non si sanno orientare, questa situazione la troviamo in tutti gli ambiti della società. Un immigrato può essere un detenuto, un disoccupato, uno sfruttato, un prostituito, un sieropositivo, un tossicodipendente; per cui la sua esclusione sociale è al cubo, è esponenziale rispetto a quella di un italiano.A questo non corrispondono delle politiche. Ovviamente questo che cosa ha generato? Come Caritas, ma anche all’interno del CNEL - dove abbiamo elaborato i nuovi indici di integrazione -, che cosa viene fuori? Che gli immigrati stanno meglio dove stanno meglio gli italiani, e non poteva essere diversamente. Al giorno d’oggi nessuno crede più all’accusa secondo la quale gli immigrati ci tolgono il lavoro. Lo pensano magari gli anziani perché ancora sono influenzati dagli stereotipi che gli immigrati vengono dalle colonie o amenità di questo genere.

Io non so perché venga definita “di sinistra” in questo paese, una politica dell’immigrazione. I politici non conoscono il fenomeno dell’immigrazione. In molti dei nostri servizi siamo andati ad investigare come avrebbero votato gli immigrati, chiedendo ad esempio chi preferivano tra i politici italiani e, a molti sembrerà strano, moltissimi immigrati indicavano Berlusconi perché per loro rappresenta il modello del successo, una specie di sogno americano. Ma la cosa più singolare è che quando siamo andati a porre la domanda “Quale partito voteresti” in molti casi, soprattutto tra quelle etnie fortemente connotate da un forte senso di appartenenza religiosa, come gli islamici, la maggior parte delle risposte, anche se non indicavano un partito, indicavano con chiarezza la volontà di votare per un partito non aconfessionale.

La politica non dovrebbe porsi tanto il problema del voto agli immigrati, perché se parliamo soprattutto il relazione ad un discorso amministrativo, l’immigrato che paga le tasse perché dovrebbe essere estromesso dal voto amministrativo? Se poi parliamo di voto politico allora possiamo arrovellarci intorno al discorso della cittadinanza, però al tempo stesso dico: quanto questo paese dovrà ancora attendere per dotarsi di una nuova legge sulla cittadinanza? Il nostro paese è in decremento demografico, entro il 2050 avremo più della metà della popolazione che avrà superato i 60 anni, i saldi positivi di natalità in questo paese ce li assicurano soltanto gli immigrati, e noi stiamo ancora a dire che se un bambino nasce qua da genitori albanesi o nigeriani deve rimane albanese o nigeriano? Mi sembra una cosa folle. Al tempo stesso però l’adesione dell’immigrato alla cittadinanza italiana non deve essere, a mio giudizio, la conquista del documento, quanto piuttosto l’adesione ad un progetto culturale più che politico, un progetto di identità. Ma mi chiedo se l’Italia dei cento campanili, quella che ancora è divisa tra terroni e polentoni, è in grado dopo 150 anni di storia unitaria di prospettare un modello culturale all’immigrato?

Mettendo da parte la questione legata al voto, che comunque riveste una sua importanza e con la quale bisognerà fare i conti, se vogliamo preoccuparci veramente delle seconde generazioni, delle cosiddette G2, che oggi hanno una età media di 6 anni e che sono un terreno ideale su cui seminare per fare sì che questi ragazzi un domani non si trovino a dover scontare quello che i loro omologhi francesi, hanno vissuto. Il modello non può basarsi solo sul fatto che viene concessa la cittadinanza dopodiché agli immigrati spettano solo le occupazioni che noi non abbiamo più intenzione di fare, oppure spetta di vivere in veri e propri ghetti, come è accaduto in Francia, un paese di grandi tradizioni liberali. Questo è un fenomeno che mi preoccupa molto anche per la recrudescenza di fenomeni razzisti e xenofobi che si sono sviluppati in Europa, come in Olanda, in Germania, e che sta accadendo anche qui da noi. Il lancio di uova su di un corteo pacifico di immigrati, accaduto poche settimane fa, i ragazzi sui motorini che intimano agli immigrati di lasciare il territorio, le rapine e le aggressioni non denunciate, le aggressioni sistematiche ai danni di immigrati; la mancata attenzione politica a questi fenomeni ha fatto sì che per molta gente più che ad un incontro con le diversità si arrivi allo scontro. Nessuno ha fornito una attenzione di tipo culturale ed antropologico, per spiegare il perché questa gente sta qui in Italia, le loro sofferenze, quello da cui fuggono, i costi elevatissimi che hanno sostenuto, le speculazioni che vengono fatte sulla loro pelle.

I cittadini italiani vivono molto spesso l’immigrazione con fastidio, vai spiegare che non ci sono solo gli immigrati che ti aggrediscono e che ti violentano nei dintorni della stazione o che ti ammazzano per una lite in metropolitana. Per quell’unico caso che accade si sottace su migliaia di persone che lavorano onestamente. Il discorso stesso della presenza in carcere degli immigrati è un altro luogo comune, andiamo a considerare la modesta capacità di accesso alle misure alternative alla detenzione che hanno gli immigrati.

 

 

Successivamente ai fatti di cronaca vediamo spesso nei giornali e nelle televisioneil dato relativo alla percentuale di immigrati nella popolazione carceraria, circa 1/3 del totale, per indicare l’alto tasso di criminalità tra gli immigrati. Qual è la sua opinione in proposito?

 

 

 

Intanto che ci sia una incidenza dei fenomeno migratorio sull’ordine pubblicoè un fatto comune a tutte le storie dell’emigrazione, anche quella degli italiani che andavano negli Stati Uniti, il che non ci autorizza a dire che i milioni di emigranti italiani siano stati tutti delinquenti o mafiosi, anche se così venivamo etichettati. Se lo studio della storia significa conoscere il problemi del passato per anticipare il futuro sembra che non abbiamo appresa proprio nulla. Perché riserviamo agli immigrati lo stesso trattamento che ricevevamo negli Stati Uniti, in Francia, etc.

Non attribuisco eccessiva importanza o incidenza a questo dato, che in primo luogo risuola la popolazione straniera detenuta su quella che è la popolazione straniera nel suo complesso presente in Italia. Ovviamente in questo, oltre ai tre milioni e settecentomila immigrati regolarmente presenti dobbiamo aggiungere anche un certo numero di irregolari e clandestini, che non sono in grado io di quantificare, ma non lo sanno fare e non lo possono fare nemmeno le forze dell’ordine. Quindi diciamo che potremmo parlare di una cifra vicina anche ai cinque milioni di migranti presenti in Italia, per cui se andiamo a sovrapporre la popolazione carceraria sulla popolazione straniera, ufficialmente residente e possibilmente residente, abbiamo una cosa risibile in termini di percentuali, che rientra appieno negli standard di incidenza di un fenomeno migratorio sull’ordine pubblico. Al tempo stesso non possiamo sottacere il fatto che innanzitutto i denunciati sono cosa effettivamente diversa dagli arrestati e condannati, perché poi abbiamo visto le cronache di tutti i giorni come nel caso di Erika e Omar a Novi Ligure che ammazzano la mamma ed il fratellino e dicono che sono stati gli albanesi, la signora che tradiva il marito con il quale aggrediscono il marito ed accusa gli albanesi, voglio dire che c’è quasi una caccia all’untore…

Io ritengo, anzi sottolineo, che debba stare in Italia chi vuole lavorare onestamente, chi soprattutto accetta le regole base del nostro vivere civile, in primo luogo rispetto della figura femminile, rispetto all’obbligo dell’istruzione dei figli, su questo non ho nessuna tentazione assolutoria nei confronti di chi viene a delinquere. Vorrei però che si evitasse la mercificazione ed il qualunquismo legato al fatto che l’immigrato presente sul nostro territorio se è uomo è spacciatore o un borseggiatore, se è donna è una prostituta, io questo da cristiano, da credente, da operatore sociale, da persona che conosce un poco l’immigrazione per essermene occupato da venti anni a questa parte non lo posso accettare, ed è purtroppo quello che vedo avviene soprattutto tra i giovani, ad esempio a noi ci sono stati segnalati ed abbiamo dovuto operare anche degli allontanamenti di rumeni dal territorio che venivano minacciati da giovani italiani. Non posso dire qui come vengono aggettivati i rumeni in virtù del fatto che sono soliti mangiare aglio, oppure altre spezie, se si legge “L’orda” di Gian Antonio Stella vediamo che agli italiani succedeva la stessa cosa: venivamo apostrofati come persone che puzzavano di sego, di olio.

Se andassimo a fare una indagine su come ci percepiscono i migranti ne vedremmo delle belle, qualcosa è già venuto fuori in relazione a come loro considerano gli italiani, per come educano i bambini e curano gli anziani, e voglio dire che il parere delle badanti - non me ne vogliano Mannheimer ed altri soloni della ricerca statistica -, persone che quotidianamente si prendono cura del nostro caro anziano, penso possano essere una opinione rilevante. Sarebbe bello ed interessante perché lo sento dagli immigrati ogni giorno, vedere che fotografia restituiscono del paese Italia e quanto sia distante dagli stereotipi di un certo tipo di televisione.