LA NOSTRA PICCOLA "RESISTENZA"

25 aprile 2009

Anche se con il 25 aprile, festa della Liberazione, celebriamo la fine dal nazifascismo  non possiamo dire che per noi sia del tutto finita la Resistenza. Non mi riferisco alla “santoriana” resistenza contro il presunto potere berlusconiano, ma alla più trasversale e nascosta fatica  di resistere ogni giorno al tentativo di monopolizzare ideologicamente il tema dell’immigrazione, soprattutto nel nostro territorio. Chi ha sposato per  lavoro e per passione la causa degli immigrati sa bene cosa voglia dire vivere quotidianamente in trincea per non lasciarsi sopraffare dall’ oppressione di tanti politici, preti, rivoluzionari e filantropi che hanno scelto l’immigrazione come loro campo di battaglia. Ognuno di essi considera un solo aspetto del problema e lo assolutizza utilizzando in maniera strumentale ora il Vangelo, ora la rivolta di classe, ora l’egualitarismo utopista, ora la difesa dell’identità e della sicurezza. Per tutti costoro gli immigrati sono i proletari del terzo millennio, i figli orfani d’amore, i fratelli diseredati, i subdoli invasori. Li chiamano anche per nome, ma per essi il nome è solo il sostitutivo del numero: sono tutti uguali, accomunati dall’unico scopo di soddisfare le loro pulsioni intellettuali, moralistiche, ideologiche. Quasi sempre non ne sono minimamente consapevoli e questo aggrava molto la loro pericolosità sociale perché li induce a comportamenti irresponsabili e immutabili. La visione assolutistica che adottano come metro dell’agire li porta ad escludere a priori ogni necessità di confronto e revisione.  Tutti coloro che tentano di  cogliere la complessità del fenomeno e dare un volto e un’anima ad ogni nome ed ogni storia sono visti da loro come “nemici del popolo” da eliminare o ridurre al silenzio. In democrazia questo incoffessabile desiderio di epurazione avviene con la falsa tolleranza e con la commiserazione. Provate a dire ad una riunione di estremisti rossi che una volta garantiti a tutti i diritti fondamentali poi bisogna espellere i clandestini, vi guarderanno come un lebbroso. Oppure provate a negare il pasto alla mensa dei poveri a chi è arrivato tardi e non ha rispettato il regolamento e vi taceranno di insensibilità ed egoismo. Provate a dire ad un leghista radicale che il permesso di soggiorno non può essere elusivamente legato al contratto di lavoro e vi tacceranno di comunismo mentre rimpiange, se non addirittura nasconde in casa, la dolcissima badante ucraina che ha perso il permesso dopo la morte della mamma che accudiva con amore. Fin qui siamo nel campo delle esperienze occasionali. Altro discorso è per chi è costretto a fare i conti con queste visioni ideologiche tutti i giorni nell’esercizio della sua professione. E’ il caso di chi gestisce un centro di accoglienza che è il crocevia di tutte queste visioni contrapposte e concorrenti. Per ognuno di essi tutte le persone che accogli non sono mai quelle giuste: per alcuni sono poche per altri sono molte. Se organizzi delle feste e dei momenti di incontro: per alcuni sono inutili, per altri sono insufficienti. Se curi l’ordine e la disciplina: per alcuni sei troppo rigido, per altri troppo  impegnato. Queste contraddizioni si acutizzano spesso nell’ambito delle realtà di Chiesa. Essa infatti è la dimensione più eclettica che esista nel campo dell’immigrazione. Ci si trova di tutto: dal prete no global a quello nostalgico del regime, dalla suora che lavora con le prostitute e  quella  che non vuole uscire dal convento, dal Vescovo che ama farsi chiamare eccellenza a quello che ama sentirsi chiamare “papà”. Per non parlare dei laici che occupano tutte le latitudini possibili, a destra, a sinistra, al centro, in alto e purtroppo anche in basso. E’ questa la grandezza della Chiesa nelle cui braccia tutti si sentono a casa. Anzi dove alcuni, i preti in particolare, si sentono più a casa degli altri soprattutto quelli che impiegano le loro migliori energie a picconarla ogni giorno in nome della purezza evangelica e del distacco dai beni materiali. Insomma tra chi vuole distruggere quello che c’è e chi vuole costruire quello che non ci sarà mai, ci siamo di mezzo noi che raccogliamo faticosamente i cocci degli uni e progetti illusori degli altri per realizzare l’unico bene possibile: la carità. Questa bistrattata parola è ritornata in auge con l’ascesa di Benedetto XVI al soglio Pontificio. L’uomo del pensiero razionale ed il professore impeccabile ha voluto improntare il suo pontificato con il richiamo a questa dimensione straordinaria del cristianesimo. Prima ancora dei suoi impareggiabili distinguo in tema di Fede e di relativismo culturale il papa, nell’enciclica ”Deus Caritas Est”, ci ha dato una lezione sul significato e sulla prassi della carità con parole inimitabili: “Il programma del cristiano — il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù — è « un cuore che vede ». Questo cuore vede dove c'è bisogno di amore e agisce in modo conseguente. Ovviamente alla spontaneità del singolo deve aggiungersi, quando l'attività caritativa è assunta dalla Chiesa come iniziativa comunitaria, anche la programmazione, la previdenza, la collaborazione con altre istituzioni simili….” “L'esperienza della smisuratezza del bisogno può, da un lato, spingerci nell'ideologia che pretende di fare ora quello che il governo del mondo da parte di Dio, a quanto pare, non consegue: la soluzione universale di ogni problema. Dall'altro lato, essa può diventare tentazione all'inerzia sulla base dell'impressione che, comunque, nulla possa essere realizzato. In questa situazione il contatto vivo con Cristo è l'aiuto decisivo per restare sulla retta via: né cadere in una superbia che disprezza l'uomo e non costruisce in realtà nulla, ma piuttosto distrugge, né abbandonarsi alla rassegnazione che impedirebbe di lasciarsi guidare dall'amore e così servire l'uomo.”

Contro queste due tentazioni, la superbia e la rassegnazione, si pone oggi la nostra piccola ma difficile e silenziosa Resistenza. Pur facendo le debite proporzioni con quella storica e cruenta dei partigiani la nostra resistenza ha molte cose in comune con essa. In primo luogo è una  guerra civile perché combatte  non solo contro l’invasore straniero, ma anche contro i compatrioti alleati con essi. In secondo luogo perché è una guerra non dichiarata che si svolge nella clandestinità e spesso nella solitudine. Il problema vero di Castel Volturno infatti non è l’enorme degrado ed il sovraffollamento legati all’immigrazione, ma l’incapacità di trovare soluzioni comuni e condivise consumandosi in dolorose guerre fratricide e logoranti schermaglie ideologiche. Il nostro 25 aprile arriverà quando ci libereremo di tutti quegli invasori che vogliono monopolizzare il nostro territorio con le loro ideologie bianche, nere o rosse e ci restituiranno la libertà di pensare al nostro futuro con le armi secolari del buon senso e della carità che affondano le radici nella cultura ebraico cristiana del mediterraneo di cui siamo sempre stati un avamposto inimitabile.