Africa Per la teologia nuova primavera o riflusso?

di Anna Pozzi


Già dal titolo è evidente l’intento provocatorio: La pretesa universalità della morale occidentale . Il suo autore,
Bénézet Bujo – ordinario di Teologia morale ed Etica sociale all’università di Friburgo e presso l’Università Cattolica del Congo, a Kinshasa – è uno dei più importanti e autorevoli teologi africani e – si sa – ama parlare chiaro. Del resto, non è nuovo a questi temi. L’ultimo volume, tradotto in italiano e pubblicato lo scorso anno da Cittadella, riprende alcune questioni che sono care all’autore e che sempre più attraversano la riflessione teologica in Africa. Una riflessione che, in questi ultimi anni, ha posto particolarmente l’accento sui temi etici. Ciò tuttavia avviene nel solco della più ampia riflessione sul tema dell’«inculturazione», ovvero della ricerca di quegli aspetti della cultura africana che possono essere messi in relazione con il cristianesimo. E, in misura minore, su quello della «liberazione», intesa non solo dalle strutture di oppressione sociale, economica e politica, ma anche da una forma mentis occidentale di cui anche il messaggio cristiano trasmesso in Africa era impregnato. Il professor Bujo, che era presente anche al secondo Sinodo per l’Africa dello scorso ottobre, porta ad esempio le sue esperienze di insegnamento in diversi Paesi e continenti, dal Congo al Kenya, sino al cuore dell’Europa. Esperienze che lo hanno messo di fronte «al problema di differenti modi di fare teologia. E – come lui stesso sostiene – anche alla necessità che la Chiesa favorisca un confronto e un dialogo tra diversi modelli culturali». No, dunque, a un’egemonia o a una «esclusività» della visione etica cattolica occidentale. Piuttosto è necessaria un’apertura alle diverse esperienze culturali in cui il Vangelo si è incarnato e inculturato. Niente di veramente nuovo, in un certo senso. Eppure queste questioni, ribadite a più riprese in Africa, faticano a essere recepite in Occidente e a Roma. Già nel 1956, in un contesto storico e sociale molto diverso, il libro Des prêtres noirs s’interrogent («Preti neri si interrogano») proponeva per la prima volta, e allora in maniera ancora più dirompente, la necessità di una riflessione propriamente africana sulla Chiesa. La teologia dell’inculturazione, che si sviluppò negli anni successivi, cercò di valorizzare le culture africane, spesso sminuite dal colonialismo. Nel contempo, teologi come il camerunese Jean Marc Ela sviluppavano una corrente africana di «teologia della liberazione», che denunciava l’oppressione e la marginalizzazione del continente. Oggi, benché sovente rievocato, il discorso di Ela – insieme quello dei suoi connazionali Engelbert Mveng e Meinrad Hebga , i cosiddetti «teologi delle catacombe», significativamente non invitati al Sinodo del ’94 – resta marginale all’interno della riflessione teologica africana, che si è orientata su altri terreni, talvolta meno «scomodi». Eppure le questioni sociali continuano a essere ben presenti, forse anche più che in passato. Semmai in forma diversa. In molti sono convinti che la teologia africana oggi non debba ignorare le gravi difficoltà che il continente conosce e dunque non possa sviluppare le proprie ricerche in disparte, senza farsene carico. Lo sostiene con grande energia una delle più appassionate e originali teologhe africane, la nigeriana Teresa Okure , decano della Facoltà di Teologia dell’Istituto cattolico dell’Africa occidentale (Ciwa) di Port Harcourt. La missione del Ciwa, secondo la religiosa, è innanzitutto quella di «promuovere una teologia che ha a che fare con la vita concreta e che costruisce la fede all’interno delle comunità, a partire dall’incontro con il Vangelo». Quello che propone suor Okure è un superamento della dialettica tra «teologia dell’inculturazione» e «teologia della liberazione», attraverso un approccio diretto con il Vangelo. «Il Vangelo – mette ben in chiaro la religiosa – e non il cristianesimo, troppo carico di sovrastrutture europee». Con sfumature un po’ diverse, ma sempre nella stessa linea, il beninese Barthelemy Adoukonou sottolinea la necessità di «liberarsi dalle categorie del pensiero occidentale, che non sono adatte a interpretare l’universo simbolico e culturale dell’Africa. È necessario adeguare il pensiero teologico a una più ampia 'teoria dell’intellettualità comunitaria', ovvero leggere la Parola di Dio alla luce del sistema comunitario locale. Questo processo di 'inculturazione' realizzerebbe già un’evidente forma di 'liberazione'».
Un’altra corrente, che si inserisce sempre nel grande filone dell’inculturazione, con qualche tentativo di reinterpretazione, è quella della «teologia della ricostruzione» o «teologia dell’invenzione», in cui si colloca Léonard Santedi Kinkupu, teologo congolese. Membro della Commissione teologica internazionale e decano della Facoltà di Teologia di Kinshasa, è autore di Des prêtres noirs s’interrogent, 50 ans après e Dogme et instruction en Afrique. Perspective d’une théologie de l’invention (entrambi editi da Khartala). Nei suoi studi, Santedi sostiene l’importanza di «mettere in campo l’immaginario creativo per inventare una nuova maniera di essere Chiesa, di essere africano, di essere cittadino nella società, attento ai segni dei tempi e alla concretezza dei popoli». Questi, in estrema sintesi, i capisaldi della sua 'teologia dell’invenzione', che ruota attorno a tre figure: il 'profeta', colui che è attento ai «momenti di rottura che il Vangelo introduce nelle culture e che annuncia il vero volto di Dio che è un Dio d’amore»; il saggio, che propone «un’arte di vivere, un’etica e una nuova maniera di abitare il mondo»; e il poeta, «che può donarci una nuova visione del futuro».
In questi ultimi anni, altre due tematiche sono entrate in maniera importante nella riflessione teologica africana: il tema della «Chiesa-famiglia di Dio», emerso dal primo Sinodo per l’Africa del 1994, e le questioni di «giustizia, pace e riconciliazione», che hanno sollecitato i teologi in vista del secondo Sinodo, dove sono state riprese con grande evidenza.
Insomma, anche se con meno risalto o clamore che in passato, la teologia africana è viva e continua a esprime voci e tematiche che interpellano non solo l’Africa e la sua Chiesa, ma anche il mondo occidentale e la Chiesa universale.
Qualcuno spererebbe addirittura in una «nuova primavera». Anche se i problemi non mancano. E sono spesso di ordine materiale: mancanza di mezzi, strutture e fondi, biblioteche poco fornite, difficoltà nell’organizzare seminari e colloqui, dipendenza economica da Roma, che condiziona anche i programmi. E inoltre, un clericalismo ancora molto forte e una difficoltà ad accettare le critiche come sfida per il cambiamento.

Non a caso, un teologo preparato e autorevole, ma molto critico, come Eloi Messi Metogo, professore di Teologia dogmatica all’Università Cattolica dell’Africa Centrale (Ucac) di Yaoundé, in Camerun, non è stato invitato al Sinodo… Tuttavia, è stato lo stesso Benedetto XVI, durante il suo viaggio in Africa, a dare coraggio ai teologi africani, invitandoli a «continuare oggi ad esplorare la profondità del mistero trinitario e il suo significato per la vita quotidiana africana. Questo secolo – ha detto il Papa – permetterà forse, con la grazia di Dio, la rinascita, nel vostro continente, ma certamente sotto una forma diversa e nuova, della prestigiosa Scuola di Alessandria. Perché non sperare che essa possa fornire agli africani di oggi e alla Chiesa universale grandi teologi e maestri spirituali che potrebbero contribuire alla santificazione degli abitanti di questo continente e della Chiesa intera?».
Nel 1956 fu il libro «Preti neri si interrogano» a proporre per la prima volta in modo dirompente la necessità di un pensiero propriamente africano sulla Chiesa e negli anni seguenti si cercò di valorizzare il patrimonio nativo, spesso sminuito dal colonialismo Oggi il libro di Bénézet Bujo, uno dei maggiori teologi neri, professore a Friburgo e a Kinshasa, si intitola «La pretesa universalità della morale occidentale»