le tragedie dell'immigrazione clandestina

«Sono fuggito dalla Palestina»

«In mare ho compiuto 14 anni». La versione dei ragazzi: un centro di raccolta, poi il via dall'Egitto

 

DAL NOSTRO INVIATO
ROCCELLA JONICA (Reggio Calabria) —
Abdel mima il mare con le mani. All'inizio appena increspato, poi onde ruggenti. «Era, buio, tremavo di paura» ammette «ma quello solo alla fine. Prima tremavo di freddo». Lo schianto sono le sue dita che si intrecciano, come il groviglio di legno e uomini naufragato sulla spiaggia di Roccella Jonica. «Quando la nave si è spezzata ho pensato "resisti, ce la devo fare, ce la devo fare" ma a dire la verità non ci credevo molto». Habdel si è tuffato, come tutti. Ha annaspato fra i pezzi di quel rottame che si ostina a chiamare nave, non sa nemmeno dire se ha sentito le urla degli altri coperte com'erano dal rumore del mare forza otto. Quello che sa è che ha portato a casa la pelle. E non era affatto scontato. È il regalo che la vita gli ha fatto per il suo quattordicesimo compleanno (mercoledì scorso), passato stretto fra altre decine di disperati in viaggio, come lui, verso una speranza che si chiama Italia. Questo è quello che Abdel racconta. Il foglio che hanno compilato in prefettura dice che è il «sedicente Abdelsiih Mohamed Escim», nato in Palestina il 24 ottobre del 1993.

«Sono scappato da Ramallah ed è lì che vivono i miei genitori » giura lui alla piccola Batoul, una ragazzina di 11 anni che si improvvisa traduttrice assieme a sua madre, Mona. Perché non è cosa facile trovare qualcuno che parli arabo a Riace, dove sono ospitati da ieri pomeriggio i 12 minorenni arrivati dal mare con la carretta galleggiante che si è schiantata sulla spiaggia di Roccella. Batoul e sua mamma, palestinesi pure loro, sono qui da cinque mesi, ospiti di «Città Futura », comunità che il sindaco di Riace mette a disposizione dei diseredati del mondo «perché i diritti umani dovranno pur contare qualcosa in questo Paese... ». Così ieri il prefetto glielo ha chiesto per favore: «Ci sono 12 ragazzini nello sbarco di Roccella. Potete tenerli voi?» Un'ora dopo quei ragazzini si erano già riempiti gli occhi delle belle colline che si vedono salendo dalla marina al centro di Riace. Si sono fatti strada, con i loro stracci, fra i vicoli strettissimi di quel borgo antico e, dietro l'ultima curva in discesa, hanno trovato una casa pronta ad accoglierli. Kemel, anche lui classe 1993, è il più piccolo di tutti, il più minuscolo anche fisicamente. «Io a Ramallah andavo a scuola di mattina e facevo il muratore di pomeriggio» rivela a Batoul.

Il viaggio? «Ho contato nove giorni» dice. La versione è più o meno uguale per tutti: Palestina, ore e ore su furgoni telati che impedivano di vedere il tragitto, arrivo in una specie di centro di raccolta e poi imbarco, «di notte, non sappiamo esattamente da quale porto» dice Hablamid Said, anni 17. Al non meglio precisato «centro di raccolta» sono approdati anche Sirag Themir e Hualid Anad, sudanesi della provincia del Darfur, 16 anni a testa. «All'inizio avevamo scatolette di tonno e formaggio. Gli ultimi tre giorni, però, non abbiamo più mangiato perché le onde troppo grosse hanno fatto finire in mare la cassa con il cibo» racconta Sirag Themir. Ci sono 22 gradi, a Riace. Eppure Kemel, il piccolino della nave-rottame, si stringe nel suo giubbotto bianco appena avuto in regalo come se ci fosse freddo da battere i denti. «Sulla barca eravamo così tanti da non riuscire a muoverci. Eppure io morivo congelato » ricorda. «Però quando sono finito in acqua ho pensato soltanto a salvarmi. Il gelo non lo sentivo più». La nave, vecchissima e in legno, si è incagliata in una secca con la prua. Le onde che arrivavano rotolando da lontano diventavano sempre più alte. Una ha sollevato la poppa come fosse stata una pagliuzza e quando con il suo peso è ricaduta sull'acqua le tavole sono andate in mille pezzi ed è stato il panico. Una tonnara di vite disperate. Ciascuno, adulti e piccoli, impegnato a mantenersi vivo, a poche bracciate dalla salvezza. Aabdel, quello del compleanno, stringe i pantaloni di velluto marrone recuperati dal fondo di una bagnarola piena di vestiti usati: «Li considero il regalo dell'Italia per il mio compleanno» scherza. Poi la mente torna al naufragio. Dice che non sa nuotare. Si è tuffato, come un palombaro coraggioso in una scafandro di speranza e istinto di sopravvivenza. Con la mano ha toccato qualcuno che gli sembrava fosse un uomo «che però non si agitava per mettersi in salvo». Lì per lì non ci ha pensato. Quell'uomo era morto. Uno dei sette.

Giusi Fasano