EPISODI INCREDIBILI MA REALI DIETRO LE NOSTRE PORTE
  Donne trattate come cose:

prigioniere, picchiate, seviziate


 LUCIA BELLASPIGA
 S campia, un nome noto anche a chi non ci è mai entrato, un suono che ormai evoca inferno e ne è sinonimo. Quello che però ancora non sapevamo è che Scampia a sua volta contiene un suo inferno peggiore: un campo nomadi dove tutto può accadere senza che alcuno se ne accorga. Lì, in quel recinto che chiude fuori il resto del mondo, succede anche che una ragazza rumena, rapita a Napoli la vigilia di Natale, sia rimasta segregata per un mese, seviziata, violentata ogni giorno dal gruppo, picchiata a sangue, usata per ogni scopo e ogni sfogo, anche il più bestiale. A rapirla, anzi a prelevarla come si fa di una cosa cui si ha diritto, un diciassettenne serbo aiutato dai suoi genitori. Gli stessi che per un mese hanno assistito impassibili agli stupri fisici e mentali di quella che, almeno per età, poteva essere una figlia. Per loro, invece, restava la cosa: il figlio maschio l’aveva adocchiata e scelta in sposa, così semplicemente se l’era presa, rubandola a un marito che qualcuno le aveva già dato e ai suoi tre bambini. Perché ha solo 21 anni di vita, Marjia, ma secoli di dolore e neanche un giorno di libero arbitrio. Quando ieri la polizia ha fatto irruzione nel campo nomadi e l’ha portata via, il suo pianto è esploso liberatorio. Un pianto antico, lo stesso urlo sgorgato dalle gole di tante, troppe
 cose,
straziate nelle tante Scampia della terra da uomini che si sentono padroni. Difficile immaginare il suo terrore, ancora più difficile immaginare la durezza granitica del suo carnefice, poco più che un bambino. Marjia come Barbara: perché Scampia è ovunque, anche alle porte di Milano, a Garbagnate. È lì, al sesto piano di un caseggiato affollato, che sempre la notte di Natale un marito ha picchiato la giovane moglie fermandosi solo quando ha sentito le sue ossa spezzarsi sotto i pugni. Non era la prima volta, così i vicini ormai abituati a grida e invocazioni non hanno eccepito.
  Sposata a quell’uomo da dieci anni, Barbara non aveva mai avuto il coraggio di denunciarlo, nemmeno quando lui le portava a casa gli amici spacciatori, nordafricani, e a loro prestava la cosa: ne usufruissero pure, era sua, non facessero complimenti. Quella notte, mentre la gran parte dei piccoli nelle nostre case apriva le carte lucenti dei pacchi nella magica atmosfera del Natale, i tre bambini di Barbara chiusi nella loro camera buia si coprivano le orecchie per non sentire. Nell’altra stanza il padre che li avrebbe dovuti proteggere dai mali del mondo uccideva in loro ogni incanto e incarnava le peggiori paure. Dieci giorni fa Barbara ha detto basta e lo ha denunciato, osando ribellarsi: grave colpa la sua agli occhi del padre padrone, un’onta punita nel sangue.
  Mentre i carabinieri la aspettavano di sotto e lei saliva a prendere la valigia, lui la attendeva col coltello in mano.
  Un solo fendente e giustizia è fatta, nonostante tutto, nonostante i carabinieri sulla porta, nonostante quei tre bambini che aspettavano in caserma... Storie che diresti di un altro millennio, di popoli selvaggi, di epoche per fortuna ormai lontane. Storie invece che si ripetono ogni giorno, anche quando non verranno mai scoperte, anche mentre scriviamo o leggiamo queste parole. Non occorre cercarle tra i taleban o nelle arretratezze del sottosviluppo: basta tendere le orecchie nelle notti milanesi, o romane, o napoletane, guardare fuori dal nostro portone blindato, per renderci conto che il passato remoto è ancora tragicamente presente.