VINCENZO AMMALIATO «La strage di
Castelvolturno dello scorso settembre, costata la vita ai sei africani, non ha
fatto altro che scoperchiare un putrido pentolone nel quale chi vive a
Castelvolturno è immerso dentro da anni e spesso non se ne accorge. Subito dopo
si è scatenata una prevedibile attenzione mediatica sul territorio,
un’attenzione senza precedenti. E molti hanno cercato di sfruttare il momento
per dare in pasto a un popolo bramoso di risposte gli interventi più semplici e
immediati possibili. Ma una problematica tanto complessa come quella che vive il
territorio domizio da anni, va affrontata in maniera completamente diversa». La
riflessione è di Antonio Casale, il direttore del centro Fernandes, che sceglie
il giorno dei tanto attesi funerali dei sei ghanesi vittime della mattanza della
sartoria (cerimonia peraltro, avvenuta senza salme e con uno strascico di
proteste), per rompere il silenzio che si era imposto durante le recenti
polemiche sorte a seguito della richiesta dei politici locali del centrodestra
di chiudere la struttura vescovile di Castelvolturno da lui gestita perché
ritenuta responsabile delle presenze di clandestini nella zona. E va giù duro.
«Nelle ultime settimane - sottolinea Casale - è stato posto in essere il
tentativo di trasformare il Fernandes in un simbolo di degrado, responsabile
dell’immigrazione selvaggia nel paese. Così come è stato anche per l’ormai
famoso «American palace». La richiesta di chiusura e di abbattimento di queste
due strutture rischia di diventare un nuovo simbolo - aggiunge - con la funzione
catartica di distrarre l’attenzione dai veri problemi del territorio. Il
pericoloso tentativo messo in atto, in buona o cattiva fede, è insomma quello di
voler far credere alla gente che eliminati quelli che vengono identificati come
il «bubbone infetto», la malattia scompare. Purtroppo si sbagliano, non è così.
Ma il bubbone è, e resta, solo il sintomo più evidente di una malattia molto più
grave e profonda che se non si combatte in radice va in metastasi». I fatti
capitati in zona negli ultimi tre mesi hanno segnato profondamente la gente di
Castelvolturno; fra questi, ovviamente, anche il direttore della struttura
vescovile di Castelvolturno, porta i segni di tre mesi di forti tensioni. Ha
cercato, per settimane, di restare fuori dalle polemiche e dalle schermaglie
politiche che pure hanno finito per avvelenare un clima già pesante in una città
in cui sui muri sono comparse scritte e minacce di morte contro il sindaco Nuzzo,
ma anche frasi di incitamento ai killer della camorra. Nelle sue parole si
coglie anche un velo di rassegnazione. «Non molti anni fa - sottolinea Casale -
furono abbattute, suonando la grancassa, le famose torri del Villaggio Coppola,
un simbolo, ormai molto logoro, dell’abusivismo imperante da un ventennio sul
territorio. Si disse che era iniziato il riscatto. A distanza di pochi anni -
aggiunge - la città è precipitata nel periodo più buio della sua storia
dimostrando come il sacrificio dei «capri espiatori» individuati al momento, di
biblica memoria, non produce nessun risultato se non quello di soddisfare intime
pulsioni di vendetta, foriere di nuovi e più pericolosi mali». Ma per far
rinascere Castelvolturno, quindi cosa serve? Per Antonio Casale non ci sono
dubbi: «Non occorrono eroi, martiri o santi. Occorre solo gente onesta che ama
il prossimo suo come se stesso».