La Parola dell'Arcivescovo

21 settembre 2013

Anniversario della Morte di Mons. Bruno Schettino

 

San Paolo avrebbe scritto la lettera agli Efesini, di cui abbiamo ascoltato un breve brano, intorno all’anno 62 mentre era prigioniero a Roma. Vi sono tratti che ne caratterizzano il contenuto come una specie di “testamento spirituale” dell’Apostolo e come mandato missionario che richiede una piena consonanza tra le fede proclamata e la fede vissuta “non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri” (4, 17); “Fate attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi” (5, 15). E nel brano di oggi “vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto”.

L’invito a sopportarsi a vicenda nell’amore per conservare l’unità dello spirito nella pace è un tema ricorrente nell’insegnamento di Paolo che più volte sottolinea la necessità di due fondamentali elementi necessari per l’annuncio del Vangelo: la coerenza della vita e l’unità tra i credenti.

Credo sia utile qui tener presente la concezione fondante il pensiero di Paolo, senza la quale non potremmo comprendere pienamente il suo insegnamento. L’etica cristiana, l’ordine del suo comportamento sono scelte che derivano dalla sua fede nel Cristo Risorto, fondamento della nostra risurrezione. Ricordiamo la prima ai Corinti: “Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo” (15, 32). Il cristiano può superare questa caducità perché spera nella nuova creazione. Per l’Apostolo un’etica senza il fondamento della fede nella risurrezione non ha senso.

 

In questo giorno nel quale ricordiamo la dipartita di mons. Schettino, pastore di questa Chiesa capuana e offriamo questo sacrificio eucaristico in suffragio della sua anima, la liturgia celebra la festa dell’apostolo Matteo.

Il brano evangelico ora proclamato ci narra la vocazione dell’autore del libro che ricorda la chiamata, la festa, le critiche, l’insegnamento del Suo Maestro.

«Non sono i sani che hanno bisogno del medico ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori». La citazione di Osea 6, 6 ripresa da Matteo anche più avanti nel suo vangelo è in fondo il fulcro del messaggio di Gesù: il Signore non vuole solo l’omaggio degli atti di culto che possono risultare vuoti e senza significato se esprimono solo un esteriore e formale ritualismo, ma il cambiamento del cuore che produce misericordia cioè, secondo l’etimologia del termine, l’avvicinarsi del cuore al misero, vivere la compassione, esprimere l’attenzione provvidente verso il bisognoso, il rendersi strumenti dell’amore di Dio.

Credo che voi tutti in questo momento vogliate ricordarvi del mio venerato predecessore che ha presieduto l’Arcidiocesi di Capua da questa cattedra, proprio per queste caratteristiche del suo ministero che l’ha visto attento protagonista di molteplici iniziative suggerite dall’attenzione agli ultimi e realizzate con tratti di generosa e totale dedizione non sempre capace di manifestarsi con evidenza e difatti non sempre pienamente compresa risultando, per alcuni, non condivisibile.

La morte improvvisa ed inattesa ha reso sterile ogni commento su iniziative forse non da tutti accolte, lasciando solo spazio alla riflessione sul bene realizzato e nostalgia per l’incompletezza di un cammino. Avremo però l’eternità da condividere con lui e quindi “il tempo”, se fosse possibile utilizzare questo termine nella dimensione altra del senza tempo, per dirgli quanto non è stato possibile comunicargli e sentirci dire quanto probabilmente voleva dirci e, per motivazioni che ora ci sfuggono, non ci ha detto.

Resta però il bene compiuto, quello desiderato, prospettato, immaginato, che viene – anche se non espressamente – proposto e trasmesso come progetto a tutti noi.

Forse non ne utilizzeremo il metodo perché ogni essere umano è diverso dall’altro, ma le prospettive della misericordia devono essere accolte e recepite per realizzare il desiderio del nostro Maestro e Signore che chiama i lontani alla conversione non disdegnando di stare spesso con i pubblicani e i peccatori e semmai chiamare qualcuno di loro, come Matteo, ad essere suo apostolo “inviato” ad annunciare la buona novella della Grazia donata e a dare la vita. Matteo si converte, segue Gesù, gli dona la vita e, come evangelista, trasmette a noi la sua esperienza anche per iscritto.

Ancora Paolo agli Efesini: “Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo”. Unità non uniformità: alcuni sono apostoli, altri profeti, evangelisti, pastori, maestri per “edificare il corpo di Cristo” e per giungere tutti “all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio”.

Questo corpo di Cristo che è la Chiesa, è la Comunità Santa perché nata dal costato squarciato del crocifisso e continuamente da Lui santificata nonostante le carenze e il peccato dei credenti chiamati alla santità ma non ancora giunti alla meta della santificazione.

Ribadire il primato dell’amore e il metodo della misericordia credo sia l’obiettivo che dovremmo prefissarci in questo giorno di preghiera e di riflessione.

 

Nel mese di settembre ricorrono diversi anniversari dell’ordinazione sacerdotale di numerosi presbiteri diocesani. Mi hanno chiesto di ricordarli e di farli ricordare in questa Eucaristia. È l’occasione per augurare loro ogni bene ma anche l’opportunità per rammentare con forza - a loro e a noi - la grande responsabilità che assumiamo quando riceviamo il dono del sacerdozio.

Ricordiamo quanto ci ha detto Gesù: “A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più” (Lc 12, 48).

Carissimi confratelli nel sacerdozio, abbiamo ricevuto molto, siamo stati fatti compartecipi del progetto di salvezza del Padre, chiamati alla piena collaborazione col Figlio di Dio. Ci è stata affidata la Sua Parola, il Suo Corpo e Sangue, gli altri Sacramenti, doni e strumenti di Grazia.

Al termine della nostra vita il Cristo Re ci chiederà come li abbiamo custoditi, come li abbiamo fatti fruttificare, come li abbiamo trasmessi ai fedeli che ci sono stati affidati.

In questi giorni – ve l’ho ricordato il 17 scorso nella solennità del nostro Patrono San Roberto Bellarmino – stiamo leggendo in lettura continua il Discorso sui pastori di San Agostino. È un piccolo trattato sul compito e sui doveri di coloro ai quali il Signore ha dato il mandato di insegnare e santificare. Se non lo fa, se dice: “che me ne importa” e lascia che le pecore si smarriscano o muoiano, resta responsabile, di fronte al Signore della loro perdizione. E se invece vive male o in modo disordinato, non edifica e dà cattivo esempio, crea i presupposti per la dannazione eterna per lui e per coloro che lo seguono.

Il pastore che dinanzi al popolo si comporta male – dice Agostino – per quanto sta in lui, uccide colui dal quale viene osservato”.

 

Questo giorno che ci invita a fare memoria di quanto la nostra Arcidiocesi ha vissuto all’alba del 21 settembre dello scorso anno, reagendo con stupore e smarrimento alla triste e tragica notizia della repentina morte del pastore di questa Chiesa, ci inviti anche a ricordare le opere meritorie che mons. Schettino ha fatto e gli insegnamenti che ci ha lasciato.

Nel cartiglio del suo stemma si scrutano le prime parole del più antico tropàrion devozionale della storia cristiana dedicato a Maria, la Madre del Signore: “Sub tuum præsidium confugimus”, sotto la tua protezione ci rifugiamo, o Santa Madre di Dio. Nella tradizione ambrosiana troviamo “Sub tuam misericordiam”. Siamo certi che Maria Santissima l’ha sostenuto nel solitario momento del passaggio all’eternità e l’ha accolto sotto il suo manto con l’amorevolezza e la delicatezza di una madre.

 

Abbiamo pregato in forma responsoriale col Salmo 18 – uno dei più belli del salterio – rispondendo alla Parola di Dio con la Sua stessa Parola: “I cieli narrano la gloria di Dio, e il firmamento annuncia l’opera delle sue mani. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il lieto annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio” (vv. 1-5).

Entriamo in questa dinamica cosmica abbracciati dall’universo e, certi della forza travolgente della Parola di Dio, senza parole, senza che si oda la voce, cioè senza fare chiasso, senza il rumore che è gradito al mondo, e forse talvolta anche a noi, permettiamo al bene di “fare notizia” attraverso il silenzioso parlare della nostra vita limpida.

Come ci ha detto San Paolo, accogliendo i doni di Dio che sceglie alcuni ad essere apostoli, altri profeti, pastori e maestri, prepariamo i fratelli a compiere il loro specifico ministero per scoprire la propria vocazione al fine di edificare con entusiasmo e trasparenza il corpo di Cristo.