TRECENTO TECNICI ITALIANI
Sugli scioperanti operai inglesi le contraddizioni della City
GIORGIO FERRARI DA AVVENIRE DEL 2 FEBBRAIO 2009


U n’azienda siciliana che ha vinto un re­golare appalto da 228 milioni di euro per conto della Total - gigante francese della raffinazione - ha innescato un’ondata di scioperi selvaggi in tutta la Gran Bretagna. Motivo, la protesta dei la­voratori inglesi contro l’ingaggio di mano­dopera straniera (italiana, in questo caso, ma non solo), ovvero a difesa della britanni­cità
del posto di lavoro. Ma davvero basta che una ditta di Siracusa esporti tempora­neamente trecento suoi tecnici specializzati perché da quella raffineria del Lincolnshire la protesta dilaghi in tutto il nord dell’In­ghilterra, in Scozia, nel Galles, trascinando con sé un’onda di nazional-laburismo fra­gorosamente appoggiata dalla stampa, neanche fossimo tornati al 1779, quando Ned Ludd (il 'luddismo' na­sce da questa fi­gura leggenda­ria) fece a pezzi in segno di pro­testa un telaio meccanico, con­siderato respon­sabile della di­soccupazione e dei bassi salari?
Parrebbe di sì, o meglio, la grande paura che soffia sulla classe lavoratrice britannica non è che l’ultima sirena d’allarme di un proces­so iniziato parecchi anni fa e che ora la crisi finanziaria e la stagnazione dei mercati am­plificano come non mai. Per comprenderlo dobbiamo ripartire da quel referendum sul­la Costituzione europea che Francia e Olan­da bocciarono nella tarda primavera del 2005, coagulando in quel 'no' alla Carta i­deata da Giscard D’Estaing soprattutto la paura di un’invasione di manodopera de­qualificata a bassissimo costo proveniente dall’est europeo, il famigerato plombier po­lonais,
ovvero l’idraulico polacco che si te­meva si sarebbe accontentato di una parcel­la di un quinto rispetto a quella del suo o­mologo francese. La Gran Bretagna tuttavia, figlia di quella deregolamentazione selvaggia ma vittoriosa voluta negli anni Ottanta da Margaret That­cher che finì per privatizzare le imprese di Stato e per incoraggiare l’ingresso di capitali stranieri grazie a una fiscalità privilegiata, a­veva giocato la sua scommessa sulla forza della propria piazza finanziaria, la prima del mondo, accettando consapevolmente di deindustrializzare il Paese. Sono anni che nelle West Midland, a Manchester, a Leeds, nel Galles ci sono imprese a capitale italia­no, giapponese, cinese, come in Irlanda brillano le multinazionali asiatiche: era l’ef­fetto dell’apertura delle frontiere a chiun­que volesse investire (e pagare le tasse) sul suolo inglese.
Ma il dispositivo reggeva finché la City poteva domi­nare sui mercati come un tempo la Gran Bretagna do­minava sui mari. La grande crisi di settembre ha eroso una notevole porzione della torta finanziaria che si infornava ogni giorno in quel miglio quadrato londi­nese dove si fanno e si disfa­no più fortune che a Wall Street e che non a caso vie­ne tignosamente difeso da ogni governo dai tentativi della Ue di armonizzarne le regole con il resto d’Europa.
Tuttavia lo scudo finanzia­rio inglese di fronte allo tsu­nami partito dalla crisi americana dei mu­tui si è rivelato un paravento di lacca.
Ora la Gran Bretagna di Gordon Brown at­traversa il suo scespiriano 'inverno dello scontento', con la classe operaia che ridà fiato a un sindacato che sembrava assopito mentre sotto traccia si avverte la tentazione di molti - anche degli stessi conservatori - di accendere la miccia del protezionismo. Ma­­lattia ricorrente nei secoli, che rischia ora di estendersi a tutta l’Europa. L’Inghilterra, co­me spesso accade, è solo l’avanguardia del fenomeno.